Ranges > 33

Quando viene annunciato un nuovo lavoro in studio dei Ranges, eclettica e multiforme band post-rock strumentale di Bozeman, in Montana, chi è appassionato del genere non può fare altro che gioire. Nel corso della loro prolifica carriera, che quest’anno celebra il decimo anniversario, i post-rockers americani hanno costantemente superato se stessi, consegnando ad ogni passo un album migliore del precedente. L’undicesima fatica in studio, 33, continua la tradizione dei Nostri di mescolare l’altissima qualità della loro proposta con un intrigante tocco di cripticità e mistero, arricchendo il tutto con un’estetica impeccabile. Tale approccio conferisce, se possibile, un significato quasi letterale all’espressione “opera d’arte”: confezioni curatissime, un’attenzione maniacale ai dettagli visuali e un’originalità sorprendente persino nelle scelte di distribuzione. Basti pensare alle tre tracce extra pubblicate nei mesi successivi all’uscita di Babel del 2019, che hanno riscritto la scaletta del disco per prolungare l’esperienza di ascolto e la sua fruizione in un periodo di tempo dilatato. E poi messaggi in codice enigmatici disseminati nei brani e nelle copertine, merchandising di grande impatto ed edizioni rimasterizzate, come nel caso di Night & Day, pubblicato otto anni fa come singolo digitale e quest’anno in versione vinile, con un un nuovo meraviglioso artwork.

Ovviamente la musica non è da meno: questo 33, distribuito tramite la fidata etichetta A Thousand Arms, prosegue la tradizione degli instancabili Ranges di concepire album intrisi di un profondo significato concettuale. Partendo dalla simbologia insita nel numero 33, da sempre molto importante per la band, il disco si inoltra nell’esplorazione musicale del dualismo di Ordine e Caos. Un dettaglio interessante è l’utilizzo dei numeri romani nei titoli delle tracce, e visto che parliamo dei Ranges, sono sicuro che la scelta del giorno di pubblicazione del disco, il 12 dicembre (12/12), sia stata tutt’altro che casuale. Numerose sono le caratteristiche che rendono irresistibile la musica degli americani, per chi scrive. Riff imponenti, crescendo che si innalzano come onde maestose sull’orizzonte e una capacità unica nel plasmare l’atmosfera di ogni brano; con precisione quasi chirurgica, i Ranges modellano panorami musicali che si evolvono lentamente, stratificando suoni e sfumature fino a raggiungere climax tanto emozionanti quanto ipnotici. Questo equilibrio tra potenza e progressione emerge subito nel pezzo d’apertura: “The Slings and Arrows of Outrageous Fortune” rende giustizia alla bellezza di un titolo del genere attraverso una costruzione sonora lenta e graduale, che si prende il suo tempo per regalare un’esperienza di indiscutibile suggestione. Un pattern di batteria avvolgente, accompagnato da riff di chitarra cristallini che si perdono in riverberi senza tempo, un basso robusto e una grande dinamica: l’alchimia dei Ranges mi ha già conquistato dal primo pezzo. Da qui in poi è tutto un susseguirsi di brani di ottima fattura; ascoltando la successiva “Pillar of Mercy / Pillar of Severity” mi è parso di ritrovarmi di fronte ad un paesaggio desolato sospeso nell’immobilismo magnetico di una calma surreale, come se il tempo si fosse fermato e con esso i tumulti del mondo. La marcia ipnotica e solenne della batteria qui accarezza l’anima con un ritmo lento e rassicurante, mentre le note pulite della chitarra si insinuano con una delicatezza quasi sussurrata. Il dualismo del concept, espresso anche nella natura duplice del titolo, si manifesta attraverso elementi sapientemente integrati nel tessuto musicale del brano: le sporadiche note di pianoforte nel bridge si mescolano armoniosamente in un gioco di contrasti tra sezioni distese e altre intrise di una crescente ruvidezza sonora. Questo contrasto culmina in un finale esplosivo, dove il delay onirico dei riff in tremolo può finalmente spiccare il volo. “Warhorse” è un altro esempio emblematico del marchio distintivo dei Ranges: l’effetto elettronico minimale che accompagna costantemente la batteria crea un’aura luminosa e distesa nella composizione. La trama sonora è spaziosa e avvincente, e le melodie scintillanti delle chitarre dipingono un’atmosfera di eccellente post-rock; la ripetizione distesa dei fraseggi nel finale è come il lento e costante movimento delle nuvole, tra le infinite sfumature di un cielo al tramonto. “The Spear of Longinus” a seguire si apre con un fade-in in cui il riff di chitarra emerge delicatamente, come se provenisse da un altro mondo; l’ingresso del synth traina la sezione ritmica, che dona nuovi colori alla quiete iniziale. Nel bridge, la dicotomia del concept si rivela ancora una volta: in una delle fasi più concitate, caratterizzata da riff circolari e ripetuti e da un notevole crescendo del pattern di batteria, ci si ritrova trascinati in territori più emotivi, e la tensione costruita si dissolve gradualmente nella nostalgica melodia intessuta dalle chitarre. “Shekhinah”, il cui titolo in ebraico significa “dimora”, si erge con una potente energia, evidente sia nell’irruenza del drumming che nelle intense parti di chitarra. La sua sezione centrale si rivela drammatica e pericolosa, con melodie malinconiche che si librano sopra piatti soffusi, in contrapposizione ai colpi precisi e drammatici del rullante. L’immagine evocata sembra dipingere un pellegrino allo stremo delle forze, che non si arrende nemmeno quando le energie sembrano abbandonarlo: la sete imperversa nel deserto e soltanto la pallida e timida luce di qualche stella indica il cammino, e qui la musica si fa colonna sonora per una resistenza quasi ascetica e trascendentale verso una terra promessa che finalmente si potrà chiamare casa, un luogo dove si potrà infine trovare riposo. Il brano successivo, “Iron Fist in a Velvet Glove”, prosegue il tema atmosferico del precedente mantenendo sonorità e andamento simili; anche qui l’ossimoro del titolo riflette il dualismo alla base del concept. Rispetto alle altre tracce è anche la più breve, ed offre tre minuti di respiro prima dell’imponente accoppiata delle due monumentali composizioni successive, senza dubbio il culmine emozionale di tutto il lavoro: “Nigredo Melancholia: A Black Blacker than Black” e “Albedo Redintegrata: The Whitening”. La prima, come suggerisce il titolo, si avventura in territori emotivi tenebrosi e decadenti; il tappeto sonoro drone iniziale è di una bellezza indescrivibile, quasi spettrale, ed evoca un senso di immobilismo e sospensione temporale. Armonie riverberate e percussioni lontane risvegliano ricordi di un passato svanito, un simulacro sonoro di ciò che fu e mai più sarà, oltre le barriere del tempo. L’ingresso in pompa magna della sezione ritmica è uno dei momenti più potenti del disco: in tutti questi anni di ascolto di post-rock ho provato sensazioni così travolgenti rare volte, mi vengono in mente i Godspeed You! Black Emperor o i We Lost The Sea, o anche i Silent Whale Becomes a Dream. In momenti come questo, il post-rock rivela la sua potente capacità di evocare emozioni difficilmente descrivibili a parole: qui, la nebbia si dirada, l’oscurità è squarciata dal chiarore cristallino della batteria, dal sussurro del synth sullo sfondo e dalle essenziali note della chitarra. Potrei cercare di descrivere con le parole ciò che compone questo istante, ma sarebbe un tentativo vano: va solamente ascoltato e vissuto nel profondo. E poi c’è la seconda parte, in cui le percussioni si occupano di rasserenare gli animi scossi da tale tumulto, mentre un malinconico fraseggio di chitarra traghetta il brano verso il suo climax: il crescendo finale giunge luminoso, liberatorio e senza confini. Sebbene dischi come Babel e The Ascensionist offrissero catarsi simili, qui siamo davvero su un altro livello. La successiva “Albedo Redintegrata: The Whitening”, è la diretta controparte della traccia precedente; l’albedo (dal latino albēdo, “bianchezza”, da albus, “bianco”) di una superficie è la frazione di luce o di radiazione solare che si riflette in tutte le direzioni, evidenziando il potere riflettente di quella superficie. Il pezzo infatti evoca immediatamente sensazioni luminose e abbaglianti, sebbene una sfumatura nostalgica permei comunque le note suonate dalle chitarre: ogni elemento è al proprio posto, dalla compattezza della batteria ai riff che sostengono la melodia principale, fino alle note di pianoforte nel bridge, solenni, antiche e composte. Delicati effetti elettronici tingono l’atmosfera prima di consentire alla sinergia tra le chitarre e le percussioni di sollevare nuovamente lo spirito in una catarsi travolgente, quasi intossicante. Ecco, qualsiasi altra band avrebbe terminato qui il disco, con queste due monumentali vette emotive, l’una il completamento dell’altra, una sorta di sessione di terapia musicale capace di purificare l’animo dall’oscurità più intensa, lasciando dietro di sé solo il più pallido candore. Ma qui stiamo parlando dei Ranges, che non hanno mai avuto paura di spingere in alto l’asticella: lo fanno quindi con l’ultimo brano, il più lungo del lotto: “Magnum Opus: Ordo Ab Chao” (espressione massonica latina che significa “ordine dal caos”). In questi 13 minuti c’è tutto quello che un fan dei Ranges, ma anche del post-rock strumentale o più semplicemente della buona musica, possa davvero desiderare. Riff circolari, una trascendenza verso vette sonore di estasi dell’anima, cambi di ritmo repentini, note di chitarra inebrianti, il senso di sospensione indotto da percussioni antiche e imponenti. Negli ultimi minuti e in quel connubio di malinconia e leggerezza è racchiuso il senso profondo di tutto il concept, che a ben pensarci è anche il senso della vita stessa: non esisterebbe l’ordine senza il caos, né luci abbaglianti senza oscurità obnubilanti, né lacrime di gioia senza quelle di sofferenza. L’essere umano per sua natura cercherà sempre di dare un senso alle cose, e se la ricerca è condannata a proseguire in eterno per la nostra natura limitata, la dualità della nostra esistenza offrirà sempre una risposta: la vita, nata nel caos, trova ordine nella dualità di tutto ciò che la caratterizza.

Non so se era questo che volevano evocare i Ranges, ma il fatto stesso che mi abbiano ispirato riflessioni così profonde è la testimonianza più chiara che questo 33 non è solo un disco bellissimo, ma è anche e soprattutto un’esperienza sonora di altissimo livello che merita di essere ascoltata e interiorizzata, ascolto dopo ascolto. Nel finale rallentato, in cui la batteria si adagia progressivamente fino a scomparire, lasciando le solitarie note di una chitarra a sfumare in una dissolvenza eterea, si racchiudono tutto l’ordine e l’essenzialità possibili: l’Ordine che sorge dal Caos. Chi si nutre di melodie straordinarie che accarezzino i più profondi meandri dell’anima, avrà di che godere con questo album dei Ranges. Per chi scrive, probabilmente il loro apice creativo. E considerando la coerenza qualitativa del gruppo americano, di cui ho parlato ad inizio recensione, non oso immaginare quali nuove vette conquisteranno con il prossimo capitolo. Quel che è certo è che si tratterà di un’altra opera d’arte, plasmata con quella dedizione totale che è parte stessa del loro processo creativo: 33 in questo senso è solo l’ennesima, meravigliosa, clamorosa conferma.

(A Thousand Arms, 2023)

1. I. The Slings and Arrows of Outrageous Fortune
2. II. Pillar of Mercy / Pillar of Severity
3. III. Warhorse
4. IV. The Spear of Longinus
5. V. Shekhinah
6. VI. Iron Fist in a Velvet Glove
7. VII. Nigredo Melancholia: A Black Blacker than Black
8. VIII. Albedo Redintegrata: The Whitening
9. IX. Magnum Opus: Ordo Ab Chao

8.5