Spurv > Brefjære

Il post-rock, con le sue caratteristiche intrinsecamente evocative, spesso trova ispirazione nella grandezza e nella bellezza della natura stessa; le tematiche profonde affrontate attraverso questo genere sono spesso intrecciate con il potente legame che l’uomo ha con l’ambiente circostante. Non è raro che gli artisti post-rock si dedichino a tradurre in note e melodie questa connessione primordiale, creando quelle che nei migliori casi si possono considerare vere e proprie opere d’arte sonora: la natura effimera del vento, le montagne imponenti che sembrano toccare il cielo, i fiumi che scorrono con potenza inarrestabile o le foreste dense di segreti e misteri. Immagini di questo tipo abbondano nell’universo del post-rock, e Brefjære, l’ultimo lavoro degli Spurv, si inserisce perfettamente in questa tradizione di ispirazione naturale. Il talentuoso sestetto di Oslo aveva già dato alla luce tre ottimi album, tra cui l’acclamato Myra del 2018, un’opera molto densa che si addentrava nell’enigma dell’esistenza, confermando la grande capacità dei norvegesi di esplorare tematiche complesse in una forma musicale estremamente godibile. Con questo quarto lavoro in studio gli Spurv continuano a tessere le trame sonore che li hanno resi celebri, offrendoci un nuovo capitolo di rara bellezza. L’ispirazione dietro questi brani affonda le sue radici nelle riflessioni del principale autore, il chitarrista Gustav Jørgen Pedersen. La sua nuova casa a Tromsø, situata nell’estremo nord del circolo polare, offre una vista spettacolare sulle maestose montagne e gli imponenti abeti. In piena contemplazione, Pedersen si è posto la domanda: “Se questi elementi naturali potessero parlare, cosa si direbbero?” Da questo interrogativo è scaturita l’ispirazione per la creazione di quattro monologhi, articolati attraverso otto tracce, in cui il vento, una montagna, un abete e una farfalla prendono vita come fossero personaggi distinti. Attraverso la lingua norvegese, sia in forma corale che solistica, ognuno di questi personaggi si esprime in relazione agli altri: ad esempio osservando la fragilità di una farfalla che danza leggera al vento, o notando come l’abete attinga la sua sete dalle profondità montane. Da questi dialoghi concettuali emerge una sensazione dinamica di cambiamento di scala temporale e di relazioni, che trova il suo riflesso nel multiforme flusso musicale dell’album. Tramite una fusione molto coesa di post-rock strumentale, elementi sinfonici e tonalità post-metal, i norvegesi traducono questa visione in un lavoro che si apre a nuove dimensioni compositive: la sottile linea di demarcazione tra rock band e orchestra classica qui si dissolve, lasciando spazio solo alla bellezza atemporale della musica.

Il primo brano del lotto, “Krokete, rettskaffen”, rimanda all’universo emotivo dei Sigur Rós, evocando l’atmosfera eterea e incantatrice di brani come “Glósóli”. Un coro di quattordici elementi si fonde agli archi in una sorta di sinfonia molto suggestiva che dipinge musicalmente l’immagine di un abete solitario che danza al ritmo del vento. I violini in staccato e i delicati fraseggi delle chitarre pulite regalano un’esperienza epica e coinvolgente, trasportando l’ascoltatore in terre nordiche intrise di mistero e fascino. Nella successiva “En brennende vogn over jordet” le chitarre si immergono nella saturazione, dando alla luce una ritmica piuttosto concitata: ci si trova catapultati in uno scenario tempestoso, ci si sente persi ed in balia della potenza sconfinata degli elementi primordiali. Il riff distorto principale assume una sfumatura quasi orientale nelle sue armonie, mentre l’effetto ambient delle chitarre in tremolo, che si riverbera su uno sfondo di piatti gentilmente toccati, crea un contrasto di grande impatto con l’intensificarsi delle sferzate elettriche delle chitarre distorte. C’è un equilibrio meraviglioso tra dolcezza e crudezza, e le immagini mentali che emergono sono di una bellezza solenne e profondamente antica; la struttura post-metal del brano abbraccia influenze classiche, mostrando una pregevole dinamica: le chitarre sporche e pesanti coesistono armoniosamente con fraseggi più morbidi e delicati, in un flusso sonoro sorretto da un’ottima batteria. La produzione brilla per la sua chiarezza, mentre gli assoli di violino illuminano completamente il paesaggio sonoro, svelando la profondità che si nasconde dietro la potenza delle chitarre. “Som syker” avvolge l’anima con la sua malinconia epica e magniloquente, richiamando alla mente i paesaggi sonori eterei dei Mono. Le pareti sonore delle chitarre si fondono con un basso molto prominente nel mix: il tema principale eseguito in tremolo si insinua nell’orecchio e si fissa nella mente, donando una piacevole sensazione di nostalgia in cui è un piacere perdersi, ritrovando parti di sé. La sezione ritmica, tutt’altro che malinconica, si unisce in modo sublime quando il motivo principale viene cantato dal coro di voci bianche; è il classico momento che ad un primo ascolto fa venire i brividi. Segue un suggestivo intermezzo intitolato “Under himmelhelvingen”, che evoca un’atmosfera simile alle sonorità dei Wardruna o degli islandesi Sólstafir: l’unione tra la voce e i tappeti sonori ambient crea una sorta di “timelapse” musicale; è come se ci si ritrovasse seduti accanto ad uno sciamano intorno ad un fuoco, immersi in un antico rito sussurrato che accompagna l’incessante fluire del tempo riportando alla vita le memorie delle terre ancestrali e delle civiltà perdute. Una timida chitarra in tremolo introduce il brano successivo, “Til en ny vår”, che si distingue per la sua dolcezza, mentre i fraseggi melodici della chitarra pulita colorano l’atmosfera come pennellate di luce: note dolci e avvolgenti si fanno strada attraverso l’atmosfera, colorando lo spazio con una luminosità sfumata. La sensazione evocata dalla musica è quella di ritrovarsi immersi in panorami sonori ampi e grandiosi, un po’ come nei primi lavori dei This Will Destroy You. Le note sospese nel tempo cullano e ammaliano, dipingendo uno scenario di incantevole nostalgia in cui il tempo sembra rallentare: ci si sente avvolti da una sensazione di meraviglia e struggente bellezza, mentre il cuore si riempie di una melodia che si fa eco dentro le nostre parti più profonde. Una chitarra riverberata lontana sembra sussurrare come un soffio di vento in una valle, mentre la dolcezza della melodia principale si intensifica con l’arrivo delle percussioni, a mio parere un altro velato omaggio ai Sigur Rós di Takk. Quando il brano si infiamma e cresce a metà, si viene completamente travolti e rapiti dalla musica e dai suoi elementi, come se un’intera orchestra risuonasse all’unisono. “Å vente er å endre”, il primo singolo pubblicato, offre sul piatto muri di chitarre, dissonanze degli archi e una voce femminile che si unisce alla mescolanza sonora. Il brano presenta sezioni minimaliste che vengono risvegliate dalle dissonanze e da una chitarra che emerge su un’atmosfera droning, effetto molto simile a quello usato in “Under himmelhelvingen”. Questo inasprimento del suono e l’uso di chitarre più pesanti prosegue con “Urdråpene”, un altro brano dal carattere più post-metal: le chitarre si fanno ancor più potenti e impetuose e le armonie evocano mondi lontani con un sapore orientale che richiama alla mente “En brennende vogn over jordet”. La fusione tra gli archi e le potenti chitarre crea un vortice implacabile che narra storie, dipanandosi tra stagioni ed ere geologiche, e ci conduce verso l’immensità imperscrutabile di tutto ciò che anima gli elementi naturali dell’atmosfera. A questa magnifica deflagrazione segue la traccia di chiusura, “Din pust fra stein”, in cui il misticismo del coro e della voce femminile assomiglia ad un rito pagano ancestrale che celebra la natura e la sua voce millenaria.

Brefjær, a parere di chi scrive, è un album che si avvicina all’importanza di lavori monumentali del genere come Hymn to the Immortal Wind dei Mono o () dei Sigur Rós. Con talento ed innegabile maestria, gli Spurv dipingono affreschi sonori in musica che svelano scenari di profonda bellezza, con composizioni che riflettono la maestosità delle montagne, l’energia del vento e la delicatezza dei fiori che sbocciano. Questo lavoro è un tributo alla bellezza e alla forza della natura, e al contempo rappresenta un ponte ideale tra il post-rock strumentale, il post-metal e la musica sinfonica; l’ascolto trasmette un sincero entusiasmo per l’arte della creazione musicale e per la bellezza senza tempo che può essere espressa quando la musica è guidata da idee autentiche, libere dagli schemi e dai cliché del genere. È un lavoro di grande complessità nella realizzazione, e nonostante l’indubbia ricchezza sonora le emozioni suscitate sono di una semplicità sorprendente. In un perfetto equilibrio tra tempo fugace ed eternità, il disco rivela una sua verità universale: nonostante la brevità e la transitorietà della nostra esistenza, siamo tutti intrinsecamente eterni. Brefjære ci invita a riflettere sul significato della nostra vita e sulle profonde esperienze che attraversiamo, facendoci prendere coscienza dell’intensità del nostro essere. È un viaggio che ci ricorda la bellezza effimera di ogni istante e la connessione eterna che ci lega all’universo di cui siamo parte, da sempre e per sempre.

(Pelagic Records, 2023)

1. Krokete, rettskaffen
2. En brennende vogn over jordet
3. Som syker
4. Under himmelhelvingen
5. Til en ny vår
6. Å vente er å endre
7. Urdråpene
8. Din pust fra stein

8.5