Gli Interpol sono una di quelle band che ha subito la maledizione di dare alle stampe un disco di debutto clamoroso, in grado di mettere d’accordo tutti e di imprimersi nella memoria della gente come un istant classic. Gli album successivi, seppur dotati di una profonda qualità, hanno sempre subito questo asfissiante paragone, di cui cadono vittima molti gruppi; questo ha instillato un preconcetto diffuso su una presunta formulaicità della band. Quante volte vi sarà capitato di leggere in qualche recensione qualcosa come “lavoro interessante, ma non ha niente a che vedere con Turn On The Bright Lights.”? Per chi scrive, fermarsi a questo paragone improprio è un vero e proprio esercizio di superficialità. La discografia degli Interpol è quella di una band che ha sì attinto a sonorità specifiche, innegabilmente influenzate dalla new wave e dal post-punk, ma le ha forgiate in una tipologia di indie-rock molto personale. Certo, Turn On The Bright Lights è un unicum sia nella loro discografia che nel periodo in cui è uscito, ma ad esso hanno fatto seguito album di livello molto alto. L’impianto sonoro degli Interpol si fonda sui testi poetici e introspettivi di Paul Banks, sui riff di Daniel Kessler (uno dei sound più caratteristici e riconoscibili dell’indie-rock di ultima generazione), sulla consistenza e l’inventiva dei pattern di batteria di Sam Fogarino. La dipartita dell’ex bassista Carlos Dengler aveva fatto preoccupare in molti all’epoca, ma la band non ha comunque mai smesso di dare alla luce lavori assai riusciti: da molti anni le linee di basso le scrive lo stesso Paul Banks, e in ogni disco sembra avere sempre più padronanza con lo strumento.
I primi singoli usciti, “Toni” e “Something Changed”, avevano generato un bel chiacchiericcio: entrambi focalizzati sul pianoforte come strumento principale, avevano generato l’idea fuorviante che questo fosse l’album pianistico e morbido degli Interpol. Ascoltando il disco nella sua completezza non vi è nulla di più distante dalla realtà: The Other Side Of Make-Believe è un lavoro compatto e strutturato in cui la band americana sembra attraversare una nuova giovinezza, aprendo il proprio sound consolidato a soluzioni sonore nuove, più ampie e sperimentali, con un grandissimo senso di maturità. Disco figlio della pandemia, è il primo nella carriera dei newyorkesi nato “in remoto”, con i membri della band sparpagliati a svariate migliaia di chilometri di distanza. Questo ha dato modo ai tre di esprimersi e ragionare le scelte, andando in totale controtendenza rispetto al processo compositivo del precedente Marauder del 2018 (e dell’EP gemello A Fine Mess), un lavoro che si prefissava di raggiungere una certa tipologia di sound, più vintage ed essenziale, catturando l’energia adrenalinica delle jam session. Il mix di questo lavoro invece sembra ritornare dalle parti rifinite di pulizia sonora di El Pintor, anche grazie alla co-produzione di Flood e dal suo collaboratore di lunga data Alan Moulder (che si era occupato proprio del mix di El Pintor) e offre sul piatto composizioni dinamiche, privilegiando la natura multiforme dei brani e la quantità di micro dettagli che ne costituiscono l’impalcatura. Il disco funziona moltissimo perché riesce a stabilire un determinato umore che si riflette con coesione in tutte le tracce che lo caratterizzano, seppur diversificando la tipologia di brani presenti in scaletta: anche negli episodi più energici si respira un grandissimo senso di armonia. Armonia nelle idee, armonia nell’umore delle atmosfere, armonia nella dinamicità delle tracce in scaletta e persino nel loro ordine. The Other Side Of Make-Believe si inserisce nella discografia della band con l’irruenza dei lavori importanti. La parte vocale del frontman Paul Banks, seppure conservando il caratteristico tono solenne ed etereo, si ammorbidisce di un calore confortante e si spoglia di tutte quelle stratificazioni sature che negli ultimi lavori ne avevano un po’ mascherato il range sonoro.
L’apertura melodica di “Toni”, affidata al piano e ad un concitato crescendo finale, spiana la strada a “Fables”, brano dall’ossatura ritmica quasi hip-hop, dove la chitarra scarna di Daniel Kessler e il cantato pieno di pathos di Banks sembrano vacillare nei versi per poi riempirsi di energia e calore, soprattutto nella parte finale. La meravigliosa “Into the Night”, che aveva già fatto la sua comparsa nel tour, alza ulteriormente il livello con una metrica irregolare in 5/4 ed un’atmosfera dark-wave che rimanda ai primi lavori della band: la voce baritonale di Banks decanta un testo ermetico e oscuro per una composizione dall’umore altalenante, in una sorta di equilibrio precario che si attorciglia in territori progressive aprendosi ad un finale catartico, con una linea di basso importante ed un sempre eccezionale Fogarino, mattatore tra le pelli in ritmiche sincopate e piene d’inventiva che strizzano gli occhi al math-rock. Il brano successivo, “Mr. Credit”, non avrebbe sfigurato in Antics o Our Love To Admire: trattasi di un’iniezione di energia alternative rock irruenta che ricorda i Pixies, con una ritmica martellante e dei momenti di calma a spezzare il ritmo in modo dinamico. “I wanna be there when you touch fire / I’ll be the hand to pull you up, tiger” canta Banks in stato di grazia, districandosi tra i riff magnetici e taglienti di Daniel Kessler, per uno dei pezzi più squisitamente rock mai partoriti dalla band. L’anima rock affiora anche in “Gran Hotel”, posto quasi in chiusura del disco, brano muscolare che ci ricorda il motivo per cui la band newyorkese è stata una delle più influenti nel post-punk revival: la voce di Paul Banks si inserisce in modo improvviso in una introduzione quasi shoegaze piena di nostalgici riverberi e schitarrate glaciali, mantenendo alta l’energia per tutto il brano. I tipici fraseggi tra le chitarre alla Interpol ed una poderosa sezione ritmica completano il quadro. Il riff principale discendente di Kessler è uno dei più espressivi del lotto, perfetta colonna sonora di un testo importante che affronta tematiche di lutto e dolore: “I see you in everything / I would gladly give my life to be there”, canta Banks. Oltre a brani dai tratti familiari e dalle reminescenze dei vecchi lavori ci sono anche composizioni che aggiungono ingredienti nuovi: la sopracitata “Something Changed” fa pensare a certe atmosfere degli ultimi The National, con una melodia di pianoforte straniante e grigia ed una batteria quasi lounge-jazz; “Big Shot City” ha dalla sua un’atmosfera più scanzonata e quasi reggae, con un finale arioso a base di chitarre in tremolo e dell’irresistibile batteria di Fogarino che aumenta d’intensità. “Renegade Hearts” privilegia il ritmo, ed è assimilabile ai migliori brani di El Pintor, con il ritornello in maggiore ed una carica ottimistica che dà assuefazione. Il finale, con una linea di basso azzeccatissima e ipnotica a sorreggere il comparto chitarristico, è tra i più “ballabili” mai composti dalla band. Questa ricerca degli spiragli di positività disseminati tra le ombre è una delle caratteristiche dell’album, soprattutto nella seconda metà: “It’s alright to be not to behave”, canta Banks nella misteriosa “Greenwhich”, le cui dissonanze e la coda leggermente psichedelica trasportano il mood in una dimensione parallela in cui il classico stile Interpol per antonomasia si contamina con sonorità spigolose mai toccate dalla band. Musicalità certamente, ma anche tanta emozione: “Passenger”, uno dei momenti più alti del disco, è un brano che ha il sapore dei classici. Gli arpeggi di chitarra scintillanti di Kessler e il cantato gentile di Banks si muovono in un tappeto sonoro malinconico per poi aprirsi ad un grandioso finale imperniato di una luminosità emozionante, in una sorta di rinascita eterea delicata e in grado di far vibrare le corde più profonde dell’anima. Dove una iconica “NYC” restava ancorata alla nostalgia, “Passenger” la attraversa, la vive e tenta di liberarsene. Questa tematica per certi versi è ripresa nel brano finale, “Go Easy (Palermo)”, una chiusura morbida ed essenziale affidata ad arpeggi che sembrano usciti da Antics ed ai dolci spiragli di luce del testo: “I’ll keep pushing it forward / All the obstacles in my way have been falling”, canta Banks, in un ultimo slancio di ottimismo e auto affermazione.
Possiamo riassumere questo album come l’istantanea di una band matura e fiduciosa delle proprie capacità, in grado di dosare con sapienza i propri punti di forza ad un approccio nuovo e azzeccato: l’oscurità più fredda che lentamente lascia spazio al calore confortante della luce. Lavoro raffinato e di gran classe, The Other Side Of Make-Believe è un disco elegante e magnetico, che cresce con gli ascolti, disvelando tutti i dettagli compositivi che lo costituiscono e la notevole sinergia che sta vivendo la band newyorchese. È un lavoro che perfeziona gli ottimi risultati della carriera degli Interpol, aggiungendo elementi di novità che migliorano la proposta senza risultare dirompenti ed eccessivamente spiazzanti. I fan di vecchia data si sentiranno a casa, i nuovi potranno fruire di un lavoro completo e ispirato: gli Interpol sono una delle più belle realtà degli ultimi anni e la classe di questo disco bellissimo ne è la innegabile dimostrazione.
(Matador Records, 2022)
1. Toni
2. Fables
3. Into the Night
4. Mr. Credit
5. Something Changed
6. Renegade Hearts
7. Passenger
8. Greenwich
9. Gran Hotel
10. Big Shot City
11. Go Easy (Palermo)