There’s A Light > For What May I Hope? For What Must We Hope?

La musica è un linguaggio che permette da sempre di afferrare stati d’animo e concetti profondi, fissandoli in composizioni su cui gli artisti possono tratteggiare melodie in cui imprimere la loro sensibilità e la loro visione. Il quintetto tedesco There’s A Light, votato ad un post-rock classico a tinte ambient contaminato dalla presenza tenue e sporadica della voce, si era già fatto notare nel 2018 con A Long Lost Silence, disco d’esordio molto compatto la cui sensibilità si palesava in ogni singola traccia. Freschi di contratto con la Napalm Records, con questo secondo album i tedeschi propongono un’evoluzione al loro sound che valorizza quanto di buono era già affiorato in precedenza. Se il primo disco privilegiava la componente malinconico-nostalgica per mezzo di brani più cupi e oscuri, i paesaggi sonori di questo lavoro sono più aperti e più luminosi, senza tuttavia disdegnare tensione e introspezione.

Per farsi notare nel mondo del post-rock, in cui la suddetta introspezione per mezzo di composizioni strumentali è una sorta di requisito minimo, bisogna sicuramente avere quel qualcosa in più: trattandosi di un genere in cui spesso le soluzioni rispondono a determinati schemi, è diventato complicato proporre qualcosa di nuovo o che attragga l’attenzione nella sua totalità. Eppure ci sono band per le quali questo discorso non si applica a causa della qualità sopraffina degli arrangiamenti e della fluidità sonora dei brani. Dischi come For What May I Hope? For What Must We Hope? ci riescono e possono davvero rappresentare uno standard, perché semplicemente non vi è un brano che non si apprezzi per la solidità delle idee melodiche. E questo stupisce ancora di più se si considera il minutaggio del lavoro: nel panorama attuale un disco che dura un’ora può risultare impegnativo. Ciò non accade in questo secondo album dei There’s A Light; i diversi ascolti sono sempre piacevoli, anche perché portano alla luce la miriade di dettagli sonori di cui sono imperniate le tracce. Gli arrangiamenti denotano un’enorme cura in questo senso; basta un delay nel rullante in una particolare fase o un fill di batteria inatteso in una sezione a migliorare brani già solidi. La produzione poi è veramente di ottima fattura, nonché valore aggiunto nel giudizio complessivo: il fattore dinamico dei brani è garantito da un mix equilibratissimo in tutte le fasi, sia quelle più distorte che quelle più stratificate. Il focus principale di questo secondo album della formazione tedesca è il concetto di speranza: sin dall’antichità filosofi e uomini d’intelletto si domandano se si tratti di un sentimento positivo, una sorta di faro luminoso nella notte tempestosa (come nell’azzeccatissima immagine di copertina) o un vano miraggio destinato ad illudere l’essere umano e a trascinarlo lontano dalla verità degli eventi, che non contemplano una giustizia di fondo alla base degli stessi. La band descrive questa ricerca con un sapiente uso delle atmosfere, dove chitarre brillanti e scintillanti costruiscono trame distese i cui riff si infrangono come un balsamo liquido e luminoso a rischiarare sezioni più tese ed urgenti. Sin dalle prime note di “…The Storm Will Set the Sails” si viene immersi in un’atmosfera epica e straniante, e le percussioni da colonna sonora poste a fine brano costituiscono il lasciapassare perfetto per il dipanarsi dell’intero concept. In questo senso, “Within the Tides” stupisce sin da subito con un’atmosfera drammatica e solenne: basso e percussioni tratteggiano una sensazione di tensione che viene gradualmente colorata dal delay della chitarra e dalla distensione degli umori, che evolvono in territori ora malinconici, ora leggeri e luminosi. L’alternanza dei diversi stati d’animo è fluida ed efficace per quello che è a tutti gli effetti un brano di rock strumentale progressive che si trasforma, si attorciglia su sé stesso e si evolve restando comunque riconoscibile e solido. Da qui in poi è tutto un dipanarsi di composizioni azzeccate: “Magnolia” si costruisce su un riff dolcissimo che ricorda gli Explosions in the Sky e sembra descrivere la purezza e l’innocenza di un mattino luminoso; “Like the Earth Orbits Sun”, in cui è presente uno dei riff più deliziosamente orecchiabili dell’intero disco, è un pezzo bellissimo ed emozionante, con un bridge in crescendo dalla forte componente evocativa. Si tratta del primo brano del disco in cui è presente la voce di Andreas Richaus, che impreziosisce anche la dolcissima “Be Brave, Fragile Heart” e il primo singolo, “Elpis”, il cui titolo in greco si traduce con “personificazione dello spirito della speranza”. I movimenti delle due chitarre qui accarezzano la linea vocale muovendo la composizione in uno stato di coscienza meditativo, prima di lasciar spazio alla prominenza del basso e ai colpi irruenti delle pelli, che alzano la tensione con un riffing concitato per poi rilasciarla in un’esplosione deflagrante e gioiosa. Il disco, come già detto, abbraccia un grosso spettro di emozioni diverse: “Dark Clouds Behind, Bright Skies Ahead” è un pezzo in cui la malinconia si erge trionfale nelle solenni chitarre in tremolo; “Refugium” è un delicato episodio ambient che accarezza l’anima con atmosfere autunnali sommesse e ovattate; “Appearance of Earth”, è un pregevole brano dalla forte caratura cinematografica, che emoziona profondamente con uno spoken word degno dei We Lost The Sea di Departure Songs e con il violoncello suonato dall’ospite Akito Goto, da brividi. Nonostante il mood del disco in generale sia più disteso e positivo rispetto al debutto, il quintetto tedesco riflette su tutte le sfaccettature della speranza, anche quelle più buie e impegnative: su “Fear Keeps Pace with Hope” (per chi scrive indubbiamente il miglior titolo), i riff di matrice post-metal rappresentano la paura e i toni delle chitarre clean la speranza: questo connubio di elementi sereni e tesi lo ritroviamo anche nel clamoroso brano finale, “Even in the Darkest Place…”, dove i toni luminosi delle chitarre leniscono l’umore principale del pezzo, irruento e ansiogeno, affidato ad un riff che ricorda tantissimo i Muse più oscuri. È come se quest’ultima cavalcata sonora rappresentasse in pieno l’artwork e in definitiva tutta l’opera: “Anche nei luoghi più oscuri” la speranza si insinua luminosa e fa capolino nel buio con la sua luminosa scia. E se questo sia un bene o un male dipende dall’interpretazione che se ne dà ascoltando: in effetti il climax finale in questo senso è ambiguo; è certamente catartico, ma la band è riuscita in modo abile a renderlo indecifrabile in termini emotivi.

Si tratta per chi scrive di uno dei dischi post-rock più belli dell’anno: è un lavoro che gratifica, cattura l’attenzione e lascia spiazzati per la qualità della proposta. La bellezza delle melodie rende l’ascolto accessibile e mai pesante, ed è un lavoro che si tornerà ad ascoltare con piacere nonostante la durata di un’ora, perché accarezza con naturalezza i dubbi e le domande alla base del tema principale con dei brani robusti e armoniosi di post-rock pensato bene e suonato ancora meglio. Con questo consigliatissimo secondo album, i There’s A Light hanno dimostrato di essere una delle formazioni più interessanti e fresche della scena post-rock, nonché una delle band dalle quali sarà più lecito aspettarsi dischi meravigliosi nel prossimo futuro.

(Napalm Records, 2021)

1. …The Storm Will Set the Sails
2. Within the Tides
3. Magnolia
4. Like the Earth Orbits Sun
5. Dark Clouds Behind, Bright Skies Ahead
6. Refugium
7. Elpis
8. Fear Keeps Pace with Hope
9. Be Brave, Fragile Heart
10. Appearance of Earth
11. Even in the Darkest Place…

8.5