Torniamo a parlare degli sleepmakeswaves dopo l’ottimo Live at the Metro del 2021 e these are not your dreams, una raccolta di tre EP uscita nel 2020 come vero e proprio full-length. Il quarto album di inediti del combo australiano, autoprodotto e registrato a cavallo tra il 2022 e il 2023, è dunque arrivato; se il titolo è già un indizio della direzione che prenderà la musica, la velata autoironia di chiamare un disco It’s Here, But I Have No Names For It (letteralmente “è qui, ma non so come chiamarlo”) non lascia spazio a dubbi, ed è evidente che i tre post-rockers da Sidney non vedevano l’ora di proporre nuovo materiale durante le loro incandescenti esibizioni dal vivo. Si evince proprio questo tuffandosi nell’ascolto di questi 40 travolgenti minuti di nuova musica: gli sleepmakeswaves sono una delle band post-rock dal piglio più energico attualmente sulla scena, ed il loro sound moderno e consolidato continua a emozionare e a coinvolgere il pubblico da quasi vent’anni.
Questa nuova fatica in studio dunque, in uscita per la fida Bird’s Robe Records, risulta molto essenziale e compatta nella struttura, al punto da sembrare quasi un best of: se these are not your dreams portava con sé un discorso cronologico nella disposizione dei brani e nelle diverse anime degli EP racchiuse in un unico contenitore, It’s Here, But I Have No Names For It è piuttosto un’amalgama perfetta dei diversi umori dinamici in cui spaziano le roboanti e moderne composizioni del trio. Chi preferisce l’headbanging avrà pane per i suoi denti con le energiche “All Hail Skull”, “Ritual Control” e “Terror Future”, grintose cavalcate metalliche accomunate da una pregevole dinamica e da un uso importante dei sintetizzatori in mezzo alle chitarre elettriche, il tutto sempre scandito dai precisissimi e poderosi colpi alla batteria di Tim Adderley. “Ritual Control”, soprattutto, farà la gioia di chi apprezza la ruvidezza del post-metal, vista l’enorme presenza di riffoni di chitarra distorta che si scagliano su sferzate di batteria ad altissimi bpm. “All Hail Skull” apre l’album con una potenza travolgente e un’irruenza strumentale irresistibile, mentre “Terror Future” è un altro grande classico, formulaico ma non per questo stancante, dell’anima energica tipica degli sleepmakeswaves: gli ingredienti stavolta sono un grandissimo basso distorto, due chitarre poste ai lati opposti del panorama stereo, oltre all’immancabile chitarra in tremolo tanto cara agli affezionati del post-rock. La freschezza del sound moderno di cui parlavo prima si percepisce nei dettagli atipici inseriti qua e là: alle notevoli aperture melodiche di chitarra pulita ad ampio respiro e ai dinamici fill di batteria si affiancano degli inserti elettronici orecchiabili dalla smaccata attitudine dance. Adrenalina sì, ma anche emozione: in questo caso la bella parte vocale che spunta nel bridge fa tanto, aggiungendo pathos e emotività ad un pezzo il cui impatto principale risiedeva inizialmente nell’energia. E proprio l’emotività è alla base di “Verdigris”, lungo interludio sognante dove gli indiscussi protagonisti sono gli imponenti sintetizzatori che costruiscono un’atmosfera spaziale tra gli M83 di Hurry Up, We’re Dreaming e le lunghe intro cinematografiche degli Angels & Airwaves. In mezzo a questi grandissimi riverberi ipnotici sembra di fluttuare senza gravità in mezzo a sconfinate galassie nel colmo, tra sporadiche e dolci note di pianoforte che decantano melodie in mezzo alla dispersione sonora sintetica. Sempre a proposito di sintetizzatori, di ben altra natura è la melodia principale retrowave del primo singolo pubblicato a gennaio, “Super Realm Park”, ispirata a F-Zero, un gioco per Nintendo 64. L’effetto è piacevolmente straniante: all’inizio sembra quasi di ascoltare una cover post-rock di un classico brano di un videogioco; il robusto rock strumentale che caratterizza il pezzo si evolve gradualmente per poi culminare in una sezione finale in cui la melodia di pianoforte e i poderosi muri di suono ricordano i migliori episodi dei Maybeshewill. Il disco è talmente variegato che si può passare tranquillamente dall’energia post-metal di una “Ritual Control” al fascino folk di una “Black Paradise”, gioiellino multiforme che si apre con un bell’arpeggio di chitarra acustica dalle parti di Steven Wilson o degli Opeth più acustici; le morbide atmosfere iniziali si sviluppano in sezioni dall’anima neo-progressive, tra i North Atlantic Oscillation e i Porcupine Tree di Lighbulb Sun. In mezzo alla bellissima melodia tratteggiata dalla chitarra elettrica e alla solennità atmosferica degli archi si percepisce un’anima psichedelica, impreziosita da una coda finale spoglia di batteria, tutta a base di riff riverberati in ebow e delicatezze arpeggiate. Un gran bel brano che alza di molto la mia valutazione dell’album, insieme alla title-track: “It’s Here, But I have No Names For It” è talmente bella che non ha bisogno di titoli particolari per stabilirne l’indubbia caratura, evidente già dai primi accordi di chitarra ritmica, accarezzati dalla chitarra acustica e valorizzati dai cangianti fraseggi post-rock della chitarra principale, in bilico tra un senso di velata malinconia e di epicità cinematografica. Il bridge che segue il crescendo chitarristico non è da meno: al coro riverberato si affianca un arpeggio da pelle d’oca che mi ha fatto pensare nientemeno che agli Alcest di Écailles De Lune; preludio da brividi per il ritorno in pompa magna della batteria insieme al resto degli strumenti. È uno dei momenti più alti del disco: la band è tiratissima e suona un post-rock trionfale ed emozionante, in cui gli archi alla Sigur Rós e il riff della melodia principale suonato dolcemente al pianoforte in chiusura rappresentano la ciliegina sulla torta di quello che è indubbiamente il mio brano preferito in scaletta.
La natura solare dell’ultimo brano, “This Close Forever”, mette il punto al disco tra melodie serene e un gioioso finale infuocato in crescendo. L’ascolto di questo It’s Here, But I Have No Names For It nella sua interezza, dunque, fila via liscio, senza sbavature di sorta e con tanti bei momenti gratificanti: quello che al primo ascolto avrei considerato semplicemente un tipico ottimo album degli sleepmakeswaves, senza infamia e senza lode, viene però impreziosito dalla presenza di due brani notevoli come“It’s Here, But I Have No Names For It”e “Black Paradise”. In fin dei conti, quando un album di post-rock strumentale riesce ad essere divertente, sperimentale e a mantenere comunque una sorta di “classicità” nel comparto emotivo, cosa si può chiedere di più?
(Bird’s Robe Records, 2024)
1. All Hail Skull
2. Super Realm Park
3. Ritual Control
4. Black Paradise
5. Verdigris
6. Terror Future
7. It’s Here, But I Have No Names For It
8. This Close Forever