Explosions in the Sky > End

Quando gli Explosions in the Sky di punto in bianco hanno annunciato l’uscita di un nuovo album di inediti, alla sorpresa si è presto associata una leggera sensazione di smarrimento tra gli appassionati. La scelta del titolo End per il disco numero sette della loro discografia ha destato legittimi e sacrosanti timori: sembrava preludere ad una sorta di addio, un lascito definitivo da parte di una delle band più influenti e seminali del panorama post-rock: i texani in due decenni di carriera hanno fatto scuola, ispirando numerose band emergenti e contribuendo insieme a Sigur RósMogwai e God is an Astronaut, per citarne alcuni, a definire i canoni del post-rock per come lo conosciamo oggi. Vere e proprie istituzioni per ciò che concerne la musica strumentale e tutta la gamma di emozioni suscitate manipolando il suono, i Nostri sono noti anche per le loro prolifiche composizioni di colonne sonore per film, documentari e serie tv, ma questo End è il loro primo album completo dalla pubblicazione di The Wilderness nel 2016. E per fortuna in questo caso il titolo non era da intendersi come album conclusivo; sul significato, gli stessi membri della band hanno dichiarato che il concetto di “fine” ha profondamente influenzato la creazione delle composizioni di questo lavoro. Fine di una relazione, di un’amicizia, persino della vita stessa; non è importante di quale fine si parli nello specifico, quel che importa è la natura ambivalente della fine come concetto, che inevitabilmente apre la porta a nuovi inizi, spesso neanche lontanamente paventati quando ci si aggrappa (in modo assolutamente umano) a qualcosa che ha naturalmente concluso il suo tempo e non la si vuole lasciare andare. Questa ambiguità concettuale si riflette chiaramente nella struttura dei brani, che sono arricchiti da una profusione di dettagli cesellati con un’innegabile maestria: in End, gli Explosions in the Sky sfoggiano un approccio di sperimentazione molto raffinato, con una miriade di intricati intarsi sonori che impreziosiscono le atmosfere dei sette brani in scaletta. Nei suoi 45 minuti, il disco prosegue il discorso intavolato con The Wilderness, ma a mio parere qui il tutto è più funzionale all’elemento sorpresa che caratterizza certe sezioni dei brani, soprattutto nei momenti di calma e di esplosiva intensità, unendo le caratteristiche sonore tipiche del quartetto texano ad una fresca vena creativa che dopo 20 anni di carriera pare inarrestabile.

“Ten Billion People” apre subito le danze tra glitch ed effetti sonori, e nel suo melodico caos controllato, debitore delle atmosfere di Take Care, Take Care, Take Care del 2011, sembra descrivere le interazioni tra esseri umani in lungo arco di tempo, come se stessimo assistendo ad un documentario sull’umanità stessa. La musica qui è densa e dissemina dolcezza in una coltre di ritmiche concitate, con gli intrecci dei tre chitarristi che evocano un senso di grandezza mentre si librano su una batteria che abbraccia tutto il panorama stereo. Malinconia ariosa e di ampio respiro che lascia spazio alla successiva “Moving On”, il cui riff principale ha il sapore di un certo indie-rock degli anni Duemila, con un pizzico di sonorità che ricordano l’ultimo (bellissimo per chi scrive) disco dei Mogwai del 2021, As The Love Continues. Il brano riesce nell’intento di catturare l’emozione della nostalgia per canalizzarla in una sorta di inno di rinascita: l’accelerazione gioiosa dei colpi al rullante e dei tom sembra quasi simboleggiare il superamento delle difficoltà e la volontà di abbracciare un nuovo inizio, senza timori di sorta. “Loved Ones” prosegue il racconto tra effetti sonori che si stagliano in un ampio spazio riverberato, con un ritmo solenne sostenuto da percussioni imponenti. La dolcezza indotta dal pianoforte e l’interplay con i colpi di batteria, uniti ai consueti effetti elettronici, donano al brano un senso di euforia che cresce gradualmente, un po’ come il timido inizio di un amore, cauto all’inizio, gioioso ed euforico in seguito. “Peace or Quiet” invece è una traccia  dalla duplice natura: l’inizio è caratterizzato da un pacifico riff di chitarra acustica, e la delicatezza del suono delle corde sembra cullare l’anima, con l’assenza delle percussioni a conferire una profonda sensazione di quiete. La dolcezza di questa prima parte richiama alla mente la bellezza eterea di capolavori senza tempo come “Your Hand in Mine”; si tratta però di un preludio all’ardente furore della seconda parte, che giunge dopo quattro minuti di estasi pacifica, donando alle esplosioni sonore delle distorsioni la forza di un’onda maestosa ed inarrestabile, meravigliosa anche all’apice del caos. Per certi versi è il brano un po’ più aderente ai canoni convenzionali dei primi dischi del quartetto, ma è con i successivi due brani, “All Mountains” e “The Fight”, che secondo me End si eleva da “buon disco” a “grandissimo disco”. La prima si distingue per le sue ritmiche complesse e la profonda evocatività che trasmette; l’influenza dei Caspian si fa sentire, sia nei delicati riff di chitarra che nei crescenti pattern di batteria. La musica sembra narrare un’ascensione verso vette inesplorate dell’anima, privilegiando la melodia ed arricchendola con una moltitudine di dettagli sonori; le tastiere si intrecciano armoniosamente con i fraseggi di chitarra, mentre archi vibranti accentuano la sensazione quasi ultraterrena che permea tutto il brano. Il crescendo musicale è contagioso, inebriante, ma è nella parte finale che “All Mountains” rivela tutta la sua simbologia. Quando la chitarra acustica resta da sola a decantare fraseggi nostalgici si crea un momento di profonda introspezione e intimità; è proprio come se qualcosa stesse giungendo alla sua conclusione, lasciando poi spazio ad una mescolanza di euforia e accettazione, rappresentata dagli altri strumenti che ritornano di lì a poco. Il tutto è squisitamente metaforico: a mio avviso simboleggia il raggiungimento della vetta di quella montagna raffigurata in copertina. È un momento in cui la luce avvolge tutto, asciugando le lacrime della fine e permettendo allo sguardo di godere del meraviglioso panorama di un inizio che invero non si credeva possibile. “The Fight” invece presenta distorsioni lontane e suoni che evocano l’atmosfera di un western carico di tensione: il contrasto tra gli effetti delle chitarre ed i sintetizzatori contribuisce a tessere le trame di un’ambientazione quasi steampunk, che sembra provenire dall’universo della Torre Nera di Stephen King. Reminiscenze suggestive e rumorose di certi Godspeed You! Black Emperor descrivono una sorta di combattimento epico e misterioso, con occasionali incursioni in territori più riflessivi: chitarra acustica e tastiera, presenti in sottofondo, dipingono a tratti un quadro sonoro avvolgente, caratterizzato da un’atmosfera ovattata che colora la desolazione di una luccicante bellezza: il ritmo soffuso della cassa, tra l’altro, ricorda il battito di un cuore, saldo e inamovibile. Il successivo fraseggio di chitarra pulita stordisce per via della sua bellezza, che si erge con fermezza sovrastando i lontanissimi riff saturi: è come se l’armonia di queste note preparasse il terreno ad una nuova immersione nella distorsione più caotica, in cui le possenti bordate di batteria e l’accelerazione del ritmo generale contribuiscono a rendere il brano ancora più cinematografico. La composizione si distingue per i suoi momenti di estasi senza tempo e per la fluida alternanza tra delicate melodie e roboanti deflagrazioni, che comunque non minano l’equilibrio di un brano impeccabile, sia negli intenti che nella struttura. Infine, “It’s Never Going To Stop” pone il pianoforte al centro della scena, accompagnato da delicati effetti riverberati in sottofondo e da una soffusa batteria elettronica. È un brano che mette il punto pacificamente all’album, con una dolcezza di fondo che mi ha ricordato il mood dei Nordic Giants: sentimenti di profonda beatitudine e pace sopraggiungono tra le note accelerate del pianoforte, soprattutto nella parte finale. Qui, i riff cristallini della chitarra e le transizioni sfumate aggiungono un tocco di grande effetto, regalando al disco una conclusione, o forse è il caso di dire una “fine”, leggera e piena di ottimismo.

Giunti al termine di questo End, oltre ad aver ascoltato un disco di assoluto livello, si prova un profondo senso di benessere: gli Explosions in the Sky si confermano gli assoluti pionieri di emozioni di sempre, e la loro abilità nella creazione di colonne sonore si riflette nei dettagli di un album costruito con maestria, anch’esso colonna sonora per chiunque si avventurerà nelle sue note, così cariche di amore, di vita e momenti di incontaminata bellezza estatica. La band si appresta a intraprendere un tour in Europa quest’autunno, e purtroppo l’assenza dell’Italia nelle date, dopo un lavoro così bello, fa ancora più male.

(Temporary Residence Ltd, 2023)

1. Ten Billion People
2. Moving On
3. Loved Ones
4. Peace Or Quiet
5. All Mountains
6. The Fight
7. It’s Never Going To Stop

8.0