Sono tornati i Bloc Party, evviva i Bloc Party. Assenti dalle scene da sei anni, i Bloc Party fanno parte di quella fucina di talentuose band indie-rock che proliferavano agli inizi degli anni Duemila: parliamo di Arctic Monkeys, The Strokes, Libertines, Interpol, The National, Franz Ferdinand e chi più ne ha più ne metta. La proposta degli inglesi è sempre stata unica in questo senso e il loro sound abbastanza riconoscibile; una sorta di connubio molto riuscito tra le divertenti sferzate chitarristiche tipiche dell’indie-rock e la carica emotiva del post-punk revival. I Bloc Party tuttavia si seppero distinguere per le loro sonorità, cariche di un’intrigante atmosfera urbana, in contrapposizione all’anima più dance/punk. La loro carriera, partita col botto, con gli anni aveva deviato un po’ dalla genialità degli inizi, tra cambi in formazione e qualche sperimentazione non troppo riuscita negli ultimi due dischi, che non convincevano moltissimo e nei quali non si aveva un’idea molto chiara delle intenzioni della band inglese. Anticipato da quattro singoli, Alpha Games è dunque il sesto album in studio per i londinesi: si tratta di un lavoro che per loro stessa ammissione cerca di ricatturare la dirompente ispirazione degli esordi. Probabilmente il tour celebrativo del 2019 dell’inarrivabile primo album, Silent Alarm, ha influito nelle scelte compositive e nelle idee che hanno portato alla nascita di questo disco. Il frontman Kele Okereke ha definito l’attuale formazione come una nuova band e non ha tutti i torti: la sezione ritmica ora beneficia in pianta stabile del bassista Justin Harris e della batterista Louise Bartle, entrambi turnisti per la band dal 2015. Va detto subito, questo fantomatico ritorno alle origini sbandierato non è soltanto una mera forma di promozione: Alpha Games è a tutti gli effetti un gran bel disco. Divertente, ispirato e immerso in un’adrenalinica atmosfera fatta di post-punk e chitarre veloci e taglienti, ritmiche ballabili e sinuose di dance-rock, riff e hook a profusione.
I primi due brani, “Day Drinker” e “Traps”, vanno dritti al sodo e spiazzano subito per la qualità. Grintosi e ispirati, con intrecci rapidissimi tra basso e chitarra e una batteria al fulmicotone: per un fan dei Bloc Party è praticamente un sogno ad occhi aperti ritrovarsi a godere degli intrecci chitarristici tra Lissack e Okereke. In tal senso soprattutto “Day Drinker”, brano d’apertura, non avrebbe affatto sfigurato in Silent Alarm, con quella parte vocale quasi rap e il ritornello aperto e corposo; “Traps”, non è da meno: una mina pulsante piena di chitarre stratificate e rumorose che disegnano trame affilate, in mezzo a mitragliate di colpi di batteria sorretti da una linea di basso micidiale e martellante. Proseguendo con l’ascolto risulta chiaro che il disco si possa essenzialmente dividere in due filoni: la prima parte è quella più divertente, e piazza una hit dopo l’altra. In questo tripudio di indie-rock e dance-punk c’è comunque un’urgenza compositiva ed una sorta di tensione respirabile in ogni brano, anche in quelli più scanzonati e leggeri. Si passa da momenti più tipicamente post-punk revival come “You Should Know the Truth”, tra riff solari e cori angelici nella coda, alle essenziali sferzate quasi punk di “Callum Is a Snake”, altro grande pezzo nonostante i due minuti di durata. Lo spartiacque è il brano “Rough Justice”, forse una delle composizioni più oscure e claustrofobiche mai prodotte dai Bloc Party: agli accordi dissonanti, al basso imponente ed alla compattezza della drum-machine è associato un testo oscuro e metropolitano sulla droga, per un pezzo che guarda agli anni Novanta e persino ad una certa forma di house, soprattutto nei break e nei drop.
La seconda parte dell’album è meno costante in termini qualitativi: brani leggermente più ripetitivi come “Sex Magik”, euforica ma un po’ monotona, o “By Any Means Necessary”, lasciano spazio a ballate più riflessive e introspettive. “The Girls Are Fighting” è un brano dai suoni interessanti e glam-rock, con un testo un po’ ripetitivo: ma ecco che ci pensa la bellezza della successiva “Of Things Yet to Come” a risollevare gli animi. Il testo è malinconico ed emozionante; l’incedere solenne rimanda agli Interpol più ispirati, con quelle chitarre piene di delay e quelle note fluttuanti in stile U2. Un brano splendido e introspettivo, che ricorda i pezzi più emozionanti del repertorio della band (“This Modern Love” o “So Here We Are”) e che nella sua conclusione fa riaffiorare echi di Radiohead e degli Angels & Airwaves di We Don’t Need to Whisper. “In Situ” è un altro colpo al cuore: l’effetto iniziale ronzante della chitarra rimanda immediatamente ai fasti di “Banquet” ed “Helicopter”, brani meravigliosi del mai troppo lodato Silent Alarm. Forse questo brano e la precitata “Traps” sono quelli che fanno più battere il cuore a chi è innamorato di quei primi due dischi come il sottoscritto. In questo senso, un’altra traccia che emoziona è “If We Get Caught”. Nella sua semplicità, si tratta di uno dei brani più suggestivi del disco: chitarre ariose e post-rock, a costruire un’atmosfera quasi estiva, leggera e commovente al contempo. Il pezzo è molto debitore del mood di A Weekend in the City (mi ha immediatamente ricordato “I Still Remember”); un incedere adorabile ed emozionante, anche soprattutto per le armonie vocali della batterista Louise Bartle in contrapposizione al cantato di Okereke. Il brano scalda il cuore e le due voci insieme funzionano moltissimo; spero che nei prossimi lavori quest’alchimia venga sfruttata ancor di più. In chiusura troviamo l’intima ballata “The Peace Offering”, brano spiazzante e fuori dall’ordinario per gli schemi del gruppo: arpeggi ovattati e riverberati affiancano una performance drammatica di spoken-word di Kele, che si tinge di emozione nel crescendo mentre riflette sull’esito di una relazione importante e tossica. Il tutto sorretto da una chitarra elettrica cupa e irruenta che spazza via l’atmosfera sospesa degli arpeggi per lasciare spazio ad un sinistro sintetizzatore e ad una coda quasi slow-core.
In definitiva Alpha Games non è soltanto un esercizio di stile o una stanca replica nostalgica dei precedenti lavori: si tratta di un disco che essenzialmente corregge la rotta di una carriera che stava deviando troppo, e lo fa restituendo l’importanza alle chitarre e all’essenzialità dei brani, che tuttavia godono della sperimentazione senza restarne travolti. Era lecito approcciarsi all’ascolto senza troppe aspettative, eppure i Bloc Party sono riusciti a confezionare un gran lavoro: nonostante non tutti i brani siano imprescindibili, questo è un disco che sa come catturare l’attenzione, che si ascolta tranquillamente in una volta sola e al quale è difficile star lontani. La produzione, affidata a Nick Launay (Nick Cave, Arcade Fire, Yeah Yeah Yeahs, IDLES) e Adam Greenspan (Refused, Maxïmo Park), oltre ad una ritrovata nuova linfa in fase di scrittura rendono l’ascolto familiare, eppure fresco e originale: anche da un punto di vista testuale molte tematiche rimandano alla perdita della spensieratezza tipica della post-adolescenza, leit-motiv principale di Silent Alarm. Ascoltando si ha la sensazione che la band si sia veramente divertita nel confezionare questi brani, a ben vedere: Alpha Games è il suono di un’identità ritrovata, e per una band con vent’anni di carriera non è affatto scontato.
(Infectuos/BMG, 2022)
1. Day Drinker
2. Traps
3. You Should Know the Truth
4. Callum Is a Snake
5. Rough Justice
6. The Girls Are Fighting
7. Of Things Yet to Come
8. Sex Magik
9. By Any Means Necessary
10. In Situ
11. If We Get Caught
12. The Peace Offering