We Lost The Sea > Departure Songs

Ci sono dei riff in grado di racchiudere in poche note l’essenza di un disco, soprattutto se parliamo di un lavoro che a parere di chi scrive si è guadagnato il titolo di opera d’arte. È proprio ciò che accade ascoltando i primi secondi di “A Gallant Gentleman”, prima traccia di Departure Songs dei We Lost The Sea. Non è un caso che una traccia del genere abbia fatto da colonna sonora ad uno dei momenti più intensi e commoventi di quel capolavoro che è Afterlife di Ricky Gervais.

Ma partiamo con ordine: come si può parlare di Departure Songs senza eccedere nelle lodi? D’altronde parliamo di un lavoro che in questi anni si è ritagliato una posizione di assoluta eccellenza nella scena post-rock, e questa versione uscita per l’anniversario gli rende giustizia. Prima dell’uscita di questo disco, i We Lost The Sea erano più catalogabili come gruppo post-metal a tinte hardcore. Gli australiani si sono trovati ad affrontare una grandissima tragedia, che è stata sicuramente il propulsore per questo lavoro: il vocalist Chris Torpy si è tolto la vita all’inizio del 2013. La band ha deciso di non fermarsi e proseguire, portando avanti l’eredità del fratello perduto, reinventandosi proprio con Departure Songs, un album strumentale catartico, potente ed emozionante, dedicato a persone reali che hanno perso la propria vita in eventi tragici sacrificandosi per qualcosa o qualcuno. Uscito in sordina nel 2015, con questo disco fondamentale la scena post-rock ha assunto nuova linfa: senza stravolgere nulla, la differenza l’hanno fatta i dettagli. La mole di emozioni racchiusa in ogni sezione, in ogni spoken word piazzato nel momento giusto, tutto a corredo della potenza evocativa. Questa edizione del vinile per l’anniversario della Dunk Records, dicevamo, è una vera meraviglia per gli occhi (nuovo artwork) e soprattutto per ciò che concerne la qualità audio: ci troviamo dinanzi ad un nuovo master, nel quale fioriscono tantissimi dettagli, in un equilibrio strepitoso fatto di dinamica e chiarezza, soprattutto nelle fasi più caotiche e piene di strumenti.

Dicevamo di “A Gallant Gentleman” e di quella chitarra flebile, quasi timida, posta in apertura. Il riff iniziale per chi scrive è la quintessenza del post-rock: note essenziali di un fraseggio di incantevole nostalgia, con la giusta quantità di delay e riverbero, ad incastrarsi perfettamente con le altre chitarre in un emozionante dialogo, che si eleverà gradualmente in un crescendo talmente tanto viscerale e profondo da trasformarsi in una valanga, un vortice emotivo sconquassante. L’ingresso del coro di voci bianche e della chitarra in tremolo rappresenta veramente uno di quei momenti inarrivabili, una sorta di istantanea emozionale che rapisce l’anima di chi si approccia all’ascolto col cuore aperto e la mente assetata di immagini. Qua di immagini, come del resto in tutto il disco, se ne evocano a bizzeffe: il gentiluomo galante a cui è intitolato il brano è sir Lawrence Oates, ufficiale britannico ed esploratore. Lawrence decise di allontanarsi da solo, sacrificandosi nell’oblio notturno, per aumentare le probabilità di sopravvivenza al resto della sua squadra, rimasta senza provviste, in una disastrosa spedizione in Antartide. Tutte le composizioni di questo disco hanno come ispirazione principale quella di raccontare sacrifici compiuti da esseri umani meravigliosi, in nome di qualcosa di più profondo ed ergendosi contro qualcosa di più grande come la Natura: affrontare la furia dei ghiacci e dell’ipotermia dando più valore alla vita dei propri compagni che alla propria. Una tale gentilezza e bellezza d’animo non può lasciare indifferenti.

Il master del vinile rende giustizia ad un brano clamoroso come questo: nella fase più concitata si riescono a distinguere perfettamente tutti gli strumenti, ogni chitarra ha il suo spazio, sia se si tratti di bordate ritmiche possenti che riff eterei in tremolo, con il coro di voci bianche del coro a bilanciare la precisa irruenza della batteria. Un inizio col botto, e dopo la prima traccia è tutto un susseguirsi di composizioni perfette: “Bogatyri” è un brano gigantesco, che parte da atmosfere sinistre e minacciose in scala di grigi che si evolvono lentamente in un fascinoso connubio tra mistero e preoccupazione. La linea di basso nella prima parte regge tutto il pezzo: ad essa si affiancano chitarre dai sapori orientali, che cresceranno sempre di più fino a ruggire nelle fragorose sfuriate post-metal degli ultimi minuti. Nel climax sembra di vivere le emozioni provate da Valeri Bezpalov, Alexie Ananenko e Boris Baranov, i tre eroi a cui è ispirato il brano, nella loro missione suicida per contenere il disastro di Chernobyl, anche qui anteponendo la vita degli altri alla propria. La parola ‘Bogatyri’ infatti indica i guerrieri eroici della tradizione medievale slava orientale, una sorta di versione dell’Europa occidentale dei cavalieri erranti delle ballate, senza macchia e senza paura. Certamente un titolo azzeccatissimo, per un brano che nel nuovo master brilla per la percezione estrema dei numerosi dettagli, soprattutto nelle parti finali, dove una moltitudine di strumenti riempie il panorama stereo ed ogni elemento si trova al posto giusto: ogni coda di riverbero arriva dritta nell’anima mentre le chitarre dipingono un quadro nefasto e senza via di uscita. D’altronde il cupo scenario dipinto da batteria e chitarre non è altresì casuale; la claustrofobia è tutta a beneficio del racconto, dove l’unica fonte di luce utilizzata dai tre eroi nell’ultima missione furono le lampade, che infine si spensero, lasciandoli in balia dell’oscurità, seppur corredata da un glorioso proposito.

È il sacrificio il tema principale delle composizioni, ed ogni sacrificio che permea la natura narrativa dei brani di Departure Songs contrappone essenzialmente Uomo e Natura. I We Lost The Sea riescono con estrema naturalezza ad evocare paesaggi sonori in cui è evidente il dislivello tra i due contendenti: l’avventatezza dell’uomo e la nobiltà di aiutare gli altri e la risolutezza della natura, nella sua solenne neutralità.

“The Last Dive of David Shaw” nella fattispecie racconta in musica gli ultimi istanti del sommozzatore australiano Dave Shaw, che promise ai genitori di Dreyer, un altro sommozzatore morto anni prima, di recuperarne il corpo: la missione gli costò sì la vita, ma nel sacrificio la promessa venne comunque mantenuta. Entrambi i corpi risalirono in superficie qualche giorno dopo, ma non sarebbe stato possibile senza – per l’appunto – l’ultimo tuffo di David Shaw. Il brano cattura alla perfezione i misteri profondi dell’oceano; ciò che si sente nel primo minuto è l’audio di un video su YouTube che ha lo stesso titolo della canzone, ed è esattamente ciò che dice: la ripresa degli ultimi istanti di vita di David. Nella prima parte, dopo una liquida introduzione effettata si parte per un viaggio dove le chitarre clean comunicano in un tappeto disteso eppure con un velo di minaccia, coadiuvato dai colpi di rullante precisi. Il break a metà brano apre a quella che sarà la parte più devastante: nel crescendo della batteria e all’aumentare dei bpm è descritta in modo assolutamente efficace la mancanza d’aria, per mezzo di un incedere ritmico, cadenzato, sempre più impellente. Un’esplosione sonora mozzafiato che non concede tregua. Musicalmente parlando è incredibile come i We Lost The Sea riescano a conferire un’intensità diversa ad ogni crescendo: non si tratta mai di soluzioni similari o fini a se stesse, ed ascoltando ci si ritrova catturati nei sensi senza neanche rendersi conto di quando un crescendo è effettivamente iniziato. La sezione finale qua evoca una distesa e malinconica sensazione di chiusura: la vicenda, seppur tragica, è riuscita. I genitori di Dreyer possono piangere il loro figlio, mentre le chitarre tornano flebilmente a suonare il tema iniziale affiancate da una struggente e stupenda coda di pianoforte.

L’apoteosi emozionale e musicale si raggiunge con l’ultimo racconto, “Challenger”. Diviso in due sezioni, “Flight” e “A Swan Song”, si focalizza sui membri dell’equipaggio del Challenger, uno shuttle che si disintegrò nel 1986, poco dopo il decollo. Probabilmente si tratta della vicenda più nota. Anche qui stupisce la potenza evocativa affidata alla composizione: dopo una parte iniziale quasi ambient/drone, l’ingresso di basso e batteria rimanda all’accensione dei motori, e i ritmi crescono in modo vorticoso per poi fermarsi all’improvviso, lasciando spazio ad un assolo di solenne malinconia, tra i Pink Floyd e Ennio Morricone. Queste note sembrano riecheggiare tra universi e supernove, ed hanno il sapore dell’infinito, dell’estasi e dell’ignoto: da qui in poi è tutta una cavalcata nel cosmo. Anche qui lo spoken word è accompagnato dal fiorire di una chitarra che sembra uscita da “Run Like Hell” dei Pink Floyd, in un’accelerazione delle ritmiche che permette al brano di elevarsi nell’atmosfera, in un fiorire di riff adrenalinici ed energici che impreziosiscono un’apoteosi sonora che si avvicina alle vette raggiunte soltanto dai Godspeed You Black Emperor in F A . I minuti finali di questa meraviglia lasciano estasiati per la mole di emozioni che riescono ad evocare, e sono difficilmente descrivibili per mezzo della parola, per chi scrive. Si tratta veramente di un’esperienza sensoriale unica, che mi sentirei di consigliare anche a chi non è un assiduo ascoltatore di post-rock. “Erano qui e ora se ne sono andati…” Dopo aver suonato con tutta l’anima possibile la band esce di scena e rimane soltanto il tragico epilogo, in cui si sentono le reazioni sbigottite e incredule della folla.

“Swan Song” giunge a fine disco dopo l’esplosione emotiva e musicale del brano precedente, e nella parte iniziale fa respirare un po’, riprendendo certe sonorità di “A Gallant Gentleman”, in una sorta di chiusura del cerchio. D’altronde parliamo di storie diverse, ma che coinvolgono la stessa gamma di emozioni: un tributo alle conquiste, ai fallimenti e alle perdite del genere umano, con barlumi di speranza e luce anche nei momenti più drammatici, tanto devastanti quanto pieni di bellezza. La parte iniziale trasmette quella dolce nostalgia che si può provare dopo un evento spiazzante: è solo quando la batteria raggiunge le chitarre che il brano ci accompagna dolcemente ad una meravigliosa sezione gioiosa, libera, euforica. Una cavalcata sonora che collima in un wall of sound finale, in cui lo spoken word rappresenta il perfetto rilascio emozionale di questo capolavoro. È come il trionfo gioioso dopo la devastazione, la surreale oasi di calma dopo il disastro, la pace al termine della marea, la compostezza e la fierezza di quando le lacrime evaporano, lasciando trasparire una sensazione di estatica meraviglia. “It’s all part of the process of exploration and discovery. It’s all part of taking a chance and expanding man’s horizons. The future doesn’t belong to the fainthearted; it belongs to the brave. The Challenger crew was pulling us into the future, and we’ll continue to follow them.”. Le parole di Reagan qui sono da brividi: non un semplice dettaglio, una precisa scelta tutta a corredo dell’impatto emozionale della musica che lo affianca, mentre paragona Francis Drake, vissuto per il mare, morto in mare e seppellito in mare al coraggioso equipaggio della Challenger. «Non dimenticherò mai né loro, né l’ultima volta che li abbiamo visti, mentre si preparavano per il viaggio e ci salutavano con la mano e “sfuggivano agli arcigni vincoli della terra” per “toccare il volto di Dio”. Grazie.» Il disastro del Challenger mostra la determinazione del genere umano ad esplorare il grande ignoto, sempre in cerca di una maggiore comprensione della propria natura anche a discapito dei fallimenti che giocoforza si potranno trovare lungo il cammino. “Swan Song” lascia addosso il sapore dolce amaro di una sconfitta che non è definitiva. Non lo è mai.

Departure Songs è un disco fondamentale, che nasce da un intento nobile, da un’ispirazione notevole, da un dolore profondo. Un disco dal fattore evocativo potente, che cattura l’attenzione per tutta la sua durata: al termine di ogni ascolto ci si sente persone migliori. Esseri umani migliori. Ascoltandolo non sono pochi i momenti che sconquassano l’anima, e certamente non si tratta di un disco leggero; tuttavia si tratta di un disco liberatorio, un’opera d’arte essenzialmente priva di difetti che fa riflettere e lascia addosso un meraviglioso senso di sollievo e pace.

(Dunk!Records, 2021)

1. A Gallant Gentleman
2. Bogatyri
3. The Last Dive Of David Shaw
4. Challenger, Part 1: Flight
5. Challenger, Part 2: A Swan Song

9.0