God Is An Astronaut > Ghost Tapes #10

C’era molta attesa per il ritorno sulle scene dei God Is An Astronaut, band di fondamentale importanza per la definizione attuale e moderna di post-rock. L’ultimo lavoro, Epitaph, tentava di esorcizzare un lutto importante per i fratelli Kinsella, avventurandosi in territori più oscuri, in una cupezza assai impegnativa al limite del doomGhost Tapes #10, d’altro canto, viaggia su binari diversi. Giunti al decimo album, gli irlandesi hanno plasmato un disco (il secondo per Napalm Records) dove sono presenti in egual misura familiarità ed evoluzione: vi è dentro una sorta di presa di coscienza nel dolore che sfocia in energia pura, per quello che sembra un invito ad andare oltre la staticità e l’inazione del lutto per sfruttare il canale della rabbia come una catarsi che ha il sognante retrogusto luminoso dell’ascensione. Le composizioni viaggiano sempre tra queste due realtà, sfiorando ed abbracciando sfuriate adrenaliniche di post-metal che discendono in eterei cunicoli spaziali dove la tensione riemerge a nuova vita e la violenza dei suoni rinasce in una importante e significativa bellezza. Le soluzioni adottate sanno osare, spiazzando e rassicurando allo stesso tempo: le atmosfere costruite inneggiano ad una purificazione che è sì rabbiosa, ma anche imperniata di una lucida consapevolezza.

La traccia di apertura, “Adrift”, è una dimostrazione perfetta di questo connubio: dapprima sconquassa gli animi per mezzo di chitarre spettrali e riff di deflagrante potenza sonora, con una batteria possente e precisa a scandire la vorticosità dell’atmosfera, per poi immergere i toni in una sorta di ascensione eterea e dai tratti più canonicamente rock e affini alle soluzioni estatiche a cui il gruppo ci ha abituati nella loro carriera ventennale. Proprio il comparto chitarristico ha una valenza importante in questo lavoro, che vede il ritorno in formazione di Jamie Dean, impegnato anche nelle tastiere; il tutto gioca a favore della robustezza del suono, sempre preciso e letale. Tutto il disco è comunque carico di un ascendente sinuoso che lo rende irresistibile: l’arpeggio che apre “Burial”, il primo singolo pubblicato nonché uno degli episodi più ispirati, sembra guardare alle sonorità più note della formazione, con quell’equilibrio quasi geometrico tra synth ariosi e tappeti di tastiere a definire paesaggi sonori onirici e sospesi in un velo di malinconia. D’improvviso un irruento riff post-metal altera l’umore del brano, trasformandolo in un gravoso tunnel di irrequietezza musicale, carico di una tensione graffiante e tuttavia disseminato di colorazioni più morbide e luminose, per lo più nelle armonizzazioni vocali piene d’effetti. L’atmosfera sin qui costruita, che rimanda agli umori del bellissimo Helios/Erebus del 2015, viene smorzata da un affascinante ed imprevedibile assolo di basso. Vi sono dei tratti in comune con l’oscurità di Epitaph, ma c’è un impeto energico ancora più raffinato ed elegante in grado di donare alle fasi più concitate una scintillante intensità: dissonanze e break pianistici dipingono una furia strumentale a più livelli che collima in un’apoteosi sonora che grida di essere vista dal vivo, quando la pandemia lo permetterà.

Quasi di natura opposta è “In Flux”, il brano successivo, che sorge da distanti echi riverberati e stranianti, per poi assestarsi in una ritmica a 7/8 che strizza gli occhi alle atmosfere più cosmiche e siderali della band. Il finale è adrenalinico, un tripudio di chitarre concitate che dialogano in un vortice sonoro esplosivo ed inafferrabile scandito dalla compattezza e dalla precisione dei colpi alla batteria di Lloyd Hanney. Anche la scelta della posizione dei pezzi nella tracklist risulta azzeccata: il riff saturo con cui si apre “Spectres” a seguire lascia presto spazio ad un’implacabile sezione ritmica, con inasprimenti sonori dal sapore quasi math rock in cui le chitarre graffiano e dialogano in spirali di esplosioni elettriche ed adrenaliniche. Il sound è essenziale e ricercato allo stesso tempo: l’eccellente produzione non può che esaltare il muro del suono che avvolge la mente in un’estasi strumentale al limite del virtuoso. E se questo non bastasse ci pensa la successiva “Fade” ad alzare ancora di più il tiro, con un giro di basso ipnotico e cupo a scandire un ritmo forsennato che non lascia scampo: un brano di questa caratura ribalta completamente i cliché del genere, dove spesso si tende ad associare al post-rock l’inconcludenza del ripetersi di certe soluzioni stanche e ripetitive. Le chitarre graffianti qui contribuiscono a creare un senso di movimento nella desolazione, sempre energica e mai arrendevole. C’è un costante senso di meraviglia eterea che pennella ogni momento, anche e soprattutto i più rabbiosi: persino le atmosfere più concitate non scendono mai nella cupezza, quanto più nell’irruenza sonora.

La narrativa del disco vede il proprio culmine emotivo con le due successive tracce finali, che ammorbidiscono i toni ma non di certo l’intensità. “Barren Trees” si disvela come un vero e proprio sogno ad occhi aperti, scolpendosi nell’anima ed evocando immagini dalla bellezza francamente disarmante. Quattro minuti di estasi che non avrebbero sfigurato nel capolavoro All Is Violent, All Is Bright: l’energia sonora accumulata nei brani precedenti trova un naturale senso di compimento nel fiorire onirico di voci angeliche dagli inafferrabili tratti eterei, in grado di commuovere per il senso di meraviglia trascendentale. Nonostante i tratti più convenzionali della struttura, l’eleganza del pezzo riesce ad insinuarsi come un balsamo luminoso ad inebriare i tratti più oscuri affrontati sinora: se un brano potesse descrivere l’impagabile sensazione di aver accettato il dolore ed averlo affrontato sarebbe senz’altro questo. Ed è proprio in questo spirito di luminescente catarsi che trova spazio “Luminous Waves”, all’apice del climax emotivo. I titoli di coda di Ghost Tapes #10 sono affidati a questo brano dai tratti più ambient e cinematografici: le note eteree delle chitarre clean e del violoncello di Jo Quail rimandano alla struggente e serena bellezza di “Infinite Horizons”, altro interludio pregevole del mai troppo lodato All Is Violent, All Is Bright. Il riverbero evoca la pace del silenzioso propagarsi delle onde, in un’atmosfera meditativa liquida ed avvolgente. I toni più distesi del brano hanno comunque dalla loro un’intensità emotiva potentissima, caratteristica invero comune a tutto il disco, in grado di suscitare emozioni profonde: un gioiello di soave delicatezza che riempie la mente di un senso di pacifico estraniamento, in balia della potenza immaginifica della musica nella sua essenza più pura.

Ghost Tapes #10 è un album ispirato, a fuoco, preciso negli intenti e cesellato con maestria. La durata compatta dei 35 minuti lo rende molto accessibile e costituisce un’ulteriore spinta al riascolto compulsivo: all’interno vi sono contenuti tutti gli elementi che rendono i God Is An Astronaut un’istituzione nella scena del post-rock da 20 anni a questa parte. Ed è pazzesco che in quest’abbondanza di materiale siano riusciti a realizzare uno degli album migliori del loro catalogo, dimostrando ancora una volta di saper plasmare in modo fluido quelle “regole” che loro stessi hanno contribuito a realizzare. Significa che c’è una sincera urgenza emotiva alla base del talento musicale, oltre ad una perfetta padronanza nell’attingere alle proprie formule senza risultare mai prolissi o scontati. Le trame sonore risultano complesse nella composizione ma trasmettono emozioni dall’impatto immediato, rimandando alla duplice natura di semplicità/complessità dell’esperienza terrena: questo album può rappresentare la colonna sonora di una rinascita dopo un dolore a cui non si è trovato un significato, e in questo senso l’aereo che si schianta posto in una copertina dalle tinte rigorosamente chiare è carico di simbologia. Oltre ad essere un’esperienza totale per l’ascoltatore, si tratta anche di un tassello molto importante per la carriera del quartetto irlandese: la qualità altissima di cui si fregia si muove sulla valorizzazione di elementi di cui i God Is An Astronaut sono maestri e di un’evoluzione che non accenna a subire perdite d’ispirazione.

(Napalm Records, 2021)

1. Adrift
2. Burial
3. In Flux
4. Spectres
5. Fade
6. Barren Trees
7. Luminous Waves

9.0