Deer Park Ranger è il progetto solista di Trevor Humphrey, da Los Angeles. Giunto al suo terzo full length, il californiano si distingue con un sound riconoscibile e personale all’interno del genere: nei suoi lavori si muove con maestria tra post-rock classico e sezioni più ambient, non disdegnando una contaminazione elettronica che rende i pezzi moderni e decisamente personali. Con Adaptation, uscito a marzo per Fluttery Records, egli sembra aver affinato ancora di più il songwriting: la sua musica vive su equilibri e contrasti, laddove i momenti di tensione più caotici sono quasi sempre bilanciati da altri più sereni, a beneficio di una maggior riflessione ed immersione in termini emotivi.
Analizzando i brani nel contesto del disco, una costante che si può trovare è quella della catarsi, non nuova nelle finalità del genere; ciò che però colpisce sin da subito è che molte delle sezioni di crescendo non giocano secondo le regole classiche. Non è raro che il crescendo di certi pezzi inizi già dai primi secondi, in maniera intelligente e cesellata nelle trame affidate agli strumenti, sempre cariche di una forte componente di atmosfera cinematografica, per mezzo di dettagli che arricchiscono i paesaggi sonori.
Un esempio di quanto suddetto è “Shapeshifter”, un brano meraviglioso e per chi scrive il più riuscito di tutto il lavoro: si rimane immediatamente rapiti dall’equilibrio tra la batteria calda, le note di sintetizzatore e un morbido riff cristallino di chitarra. È presente una sorta di circolarità nella composizione, che viene contaminata da diversi elementi che si sommano alla melodia principale. Si tratta di una tecnica che Humphrey utilizza più volte nel corso del disco, in cui certe soluzioni sonore all’apparenza semplici si disvelano in sezioni di crescendo graduali, mai irruente o improvvise, eppure paradossalmente molto più intense. Notevole soprattutto il bridge a metà canzone, dove si intervallano note di pianoforte a chitarre il cui riverbero lunghissimo ricorda certi passaggi dei primi Explosions In The Sky. Quello che Deep Park Ranger ci invita ad affrontare è un viaggio catartico al quale è impossibile restare indifferenti: al culmine dell’intensità emozionale del pezzo il ritmo rallenta e ciò che si disvela all’ascolto è un’atmosfera ambient accogliente e rilassante. Questa sezione di coda è l’ennesima forma che coesiste in un brano mutaforma, come suggerito dal titolo, che nei suoi otto minuti racchiude paesaggi sonori diversi eppure fluidi e naturali nell’incedere. In questo senso i vari elementi che gradualmente si aggiungono alla progressione del pezzo possono far pensare alle esperienze vissute dall’uomo e memorizzate nella mente, che lo rendono più preparato ad affrontare il futuro ed al contempo nostalgico attingendo talvolta ai ricordi del passato. In termini di ascolto ci si sente dapprima esposti e vulnerabili per poi ritrovarsi al caldo, a casa, protetti e cullati da un’atmosfera delicatamente familiare.
“Monument” e “Counterpart” vivono anch’esse della forza affidata ai contrasti: le strutture dei pezzi sono dinamiche, sorrette da sezioni ritmiche ipnotiche e quasi meditative; è possibile osservare in entrambe un cambio di atmosfera importante in corso d’opera. Questi due brani fanno pensare a scrigni di cui si osserva la rifinitura nella realizzazione dei materiali per poi aprirli e farsi travolgere dal contenuto. Le chitarre, contemporaneamente delicate e taglienti, assomigliano a quei sentimenti repressi che infine riescono a librarsi liberi, volando in picchiata su sezioni ritmiche compatte e ammalianti, anche qui alternando emozioni caotiche e riflessive in un gioco di equilibri talvolta semplice, eppure sicuramente d’effetto.
Si è parlato prima di contaminazioni elettroniche, invero presenti in misura diversa in tutto il disco; è con “Silver” però che l’elettronica viene usata maggiormente: in questo brano si può osservare l’impiego di glaciali sintetizzatori per costruire un’atmosfera cinematografica e invernale, figlia di certi God Is An Astronaut e dell’attitudine ambient/elettronica di Tycho. Nel descrivere passaggi freddi e ipnotici, a tratti volutamente ripetitivi, l’atmosfera viene interrotta dall’ingresso della sezione ritmica di basso e batteria a metà brano e quello che assomigliava ad un mantra elettronico si apre perciò ad una dimensione ancora più evocativa e onirica, tra delicate note di pianoforte e baluginanti note di chitarra che fluttuano immerse nel riverbero. Nella catarsi finale i sintetizzatori tornano nella melodia insieme all’intensificarsi dei piatti nei colpi della batteria, donando al pezzo un’energia notevole, frutto dell’unione di trame sonore ora calde e analogiche, ora più sintetiche e fredde.
La chiusura dell’album è affidata a “Home”: il brano finale, dai toni trionfali ed al contempo malinconici, è anche il più lungo del lotto. Nei nove minuti che lo costituiscono si avvertono atmosfere alla Sigur Ròs, soprattutto nel labile confine tra pianoforte, riverberi e sintetizzatori lontani, che abbracciano la composizione in un remoto senso di ricordo sfumato. La sensazione è quella di una vittoria malinconica, ad un caro prezzo, laddove la leggerezza ritrovata è anche frutto di smarrimenti e sconfitte propedeutiche al sentimento di completezza del brano, soprattutto nella parte finale: è ciò che si proverebbe raggiungendo la vetta di una montagna, voltandosi ad osservare la scalata sin lì effettuata e le intemperie superate.
Adaptation, nei suoi 37 minuti, rappresenta perciò la conferma delle capacità e del talento di Humphrey per quel che concerne la composizione e la tessitura di atmosfere cinematografiche cariche di emozioni. Il fatto che coesistano diverse contaminazioni non fa percepire che si tratti di un progetto solista con un’unica visione, votato soltanto ad un tipo di sonorità; all’ascolto si percepisce senz’altro l’amore per il post-rock strumentale, in cui sono molto importanti gli effetti di delay e riverbero affidati alle chitarre (e talvolta alla batteria, come nel brano d’apertura “Quick Study”), ma anche una discreta fascinazione per certe delicate suggestioni pianistiche. Questo insieme di sfaccettature dona molto respiro alle composizioni, tra l’altro suonate e prodotte nel modo più consono, anche in termini di mix e mastering.
L’unico difetto che si potrebbe trovare è sulla poca originalità di alcune progressioni, sebbene questo non infici affatto la buona riuscita del lavoro che si eleva comunque, complessivamente, tra i migliori dischi del genere usciti durante l’anno e di cui si consiglia l’ascolto con un buon paio di cuffie per godere di tutti i dettagli disseminati sapientemente nei brani, per lasciarsi rapire ed affrontare un viaggio emotivo onirico e profondo, in cui le zone d’ombra vengono pazientemente illuminate da melodie dense di fascino e atmosfera.
(Fluttery Records, 2020)
1. Quick Study
2. Shapeshifter
3. Monument
4. Counterpart
5. Silver
6. Home